LAVORATORI IPERCONNESSI, L’AUSTRALIA METTE UN FRENO, MENTRE IN ITALIA È QUASI UN’ABITUDINE
Al rientro dalle vacanze c’è un dato che accomuna gli italiani. A prescindere dalla destinazione, mare, lago o montagna, in cima alla classifica delle mete più battute c’è un luogo che stacca tutti gli altri: la dimensione digitale. Lontano dall’ufficio gli italiani hanno passato mediamente dalle 10 alle 12 ore al giorno in Rete. Un dato indicativo, che ben descrive il nostro rapporto con il mondo online. Eppure, con il ritorno in ufficio questo trend, già di per sé iperbolico, è destinato ad aumentare.
Oltre alle chat, ai social e alla navigazione più tradizionale, bisogna fare i conti con l’iperconnettività dei processi lavorativi. Tutto, o quasi, il lavoro passa ormai da internet, ma siamo sicuri che sia sempre il canale migliore?
Con l'aumento del telelavoro, accelerato dalla pandemia, sempre più persone sono connesse h24, senza riuscire a staccare effettivamente la spina. Le conseguenze sono evidenti, non solo per la salute, con il rischio d’ipertensione, stress cronico e disturbi del sonno e dell’umore, ma anche sul fronte delle performance lavorative. Una questione comune a tutti i contesti, anche sul panorama internazionale, che ha spinto i governi a studiare delle contromisure efficaci.
La legge australiana
Sul fronte globale, in queste settimane l’Australia ha deciso di spegnere il WiFi, almeno al di fuori dell’orario di lavoro. La nuova legge sul “Diritto alla sconnessione” lancia un segnale chiaro dall’emisfero australe a tutto: il benessere digitale è una priorità. Nella terra dei canguri i lavoratori sono autorizzati dallo Stato a non rispondere a mail e telefonate dei capi al di fuori del normale turno di lavoro. L’Australia, con questa misura efficace, si unisce ad oltre 20 Paesi, tra Europa e America, che hanno adottato regole simili.
ll contesto italiano
E L’Italia? Il Belpaese è fermo alla legge numero 81 del 2017, che introduce misure per incoraggiare l’articolazione flessibile di orario e luogo di lavoro. Una normativa che, pur ispirandosi al rapporto Europeo Right to disconnect: implementation and impact at company level, non riconosce formalmente la disconnessione come un diritto. La norma, infatti, affida alla contrattazione individuale tra datore di lavoro e lavoratore l’individuazione di soluzioni più percorribili. Senza contare che il fenomeno tocca da vicino anche la galassia dei lavoratori autonomi, che in Italia superano i 4 milioni e mezzo, ben al di sopra della media europea.
Il paradosso dello smart working
Gli ultimi dati inquadrano la categoria dei lavoratori a distanza come i soggetti più colpiti dall’iperconnessione. A differenza di quanto si potrebbe pensare, con l’introduzione dello smart working il monte ore del lavoro effettivo supera quello previsto dal contratto. Non si tratta di straordinari, ma di una sorta di “reperibilità” dettata dalle interazioni digitali. Mail, Whatsapp e chat, più ancora delle telefonate, accorciano le distanze e frenano quell’inibizione che, prima dell’egemonia di internet, rappresentava quel piccolo “baluardo emotivo” a tutela del dipendente.
Il ruolo dei lavoratori
Siamo certi che la responsabilità di questo malcostume sia solo delle aziende e dei “superiori”? Sono molte le realtà che, tra circolari e regolamenti interni, sollecitano il personale a rispettare il diritto alla disconnessione. L’uso crescente dei device forniti dalle aziende per non ricorrere agli strumenti personali dei lavoratori è un tentativo valido di arginare il fenomeno, con risvolti positivi anche per la privacy.
Eppure, nonostante l’argomento sia nel tempo diventato centrale per chi si occupa di Risorse Umane, circa l’80% della nostra forza lavoro riceve comunicazioni di carattere professionale al di fuori dell’orario contrattuale. Lo attesta l’ultima indagine Ue sul diritto alla disconnessione. Secondo lo studio, quasi la metà dei lavoratori di alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, lavorerebbe regolarmente per un numero di ore supplementari.
Oltre ai carichi di lavoro e alle richieste estemporanee e talvolta invasive da parte dei colleghi, ci sono altri motivi che spiegano questa condotta:
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Oltre 8 lavoratori su 10 si rendono reperibili per senso di responsabilità.
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Più del 70%, a causa dell’ansia, cerca di non accumulare ritardi nelle sue mansioni
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Circa 6 dipendenti su 10 chiudono un occhio per timore di ripercussioni
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Il 50% lo fa per ambizione, nella speranza di poter beneficiare di una promozione o di un aumento.
A questi punti, visto la pervasività generale delle nuove tecnologie nelle nostre vite, si aggiunge l’abitudine di abitare costantemente nella Rete. Tra le mille notifiche che inseguiamo ogni giorno, una buona parte riguarda proprio il nostro lavoro. Della serie, chi è causa della propria connessione, pianga se stesso.